Sorrentino torna a Cannes

Mag 27th, 2013 | Di cc | Categoria: Spettacoli e Cultura

Cinque anni dopo la conquista del “Premio della giuria” con “Il Divo” e con in tasca il premio “Film della critica” dell’SNCCI, unico regista italiano a concorrere per la Palma d’oro di questa 66esima edizione.

Torna per la quinta volta a rappresentare, da solo,  il cinema italiano, un cinema stremato dalla crisi e dall’affanno a riempire le sale con prodotti seriali, ma che all’estero rivendica il prestigio e la profondità dei migliori esempi neorealisti.

C’è chi ha paragonato quest’episodio prezioso a La dolce vita di Fellini, paragone forse ispirato dallo sfondo comune alle due pellicole, la magnifica Roma, ma i risvolti sono opposti. Entrambi sono specchio di un’epoca complessa, dove i valori profondi dell’animo umano sono cenere dormiente sotto il fuoco della vanità di riti sociali esasperati: ma se Marcello dal contatto con la Roma patinata resterà bruciato fino a rinunciare a qualsiasi ambizione, Jep si muove al suo interno con assoluta disinvoltura, alla ricerca della grande bellezza.

Jep Gambardella (Toni Servillo) ha appena compiuto 66 anni, è uno scrittore famoso per il suo romanzo ormai quarantennale “L’apparato umano” ma ha smesso di scrivere. Il perché non lo sa, magari è tutta colpa di Roma: “Vivere a Roma è perdere la vita” diceva Ennio Flaiano. Perché ti distrae, ti inghiotte nei suoi riti sociali, nella sua mondanità e ti ritrovi a cercare di riempire un vuoto con altri vuoti, attraverso rapporti insignificanti e chiacchiere vacue per non affrontare le tue fragilità e ammettere la tua disperazione, mentre ciò che ti circonda muore. Roma ti consuma.

Perché lo sfondo indifferente de La grande bellezza non è meno importante dei protagonisti che vi si aggirano. È una città vagamente metafisica, capace di essere raccontata solo da chi viene da fuori, perché ancora in grado di guardarla con occhi disincantati. E che proprio per questo può deludere.

Sorrentino ce ne restituisce un affresco non solo registico ma anche artistico, con piani lunghi e lunghissimi sulle sue vedute più tipiche, le acque del Tevere, ponte Sant’Angelo, gli istituti religiosi, il Gianicolo, i palazzi della nobiltà decaduta e “a noleggio” che, con le opere d’arte, senza tempo sono in grado, forse, di salvare i personaggi lì dove la vita è incomprensibile. Una città notturna, fitta di contrasti, dove il sacro e il profano (e tante volte il volgare) si mescolano in maniera del tutto naturale.

La grande bellezza è un film sulla solitudine, in un mondo dove non manca l’ironia, dove la nostalgia di un giovane amore è l’unico sfogo permesso. È un tentativo di restituire un’immagine realistica attraverso una storia inventata, perché inventando si può riuscire a dare qualcosa di vero: inventando un presente di storie tormentate, di un senso delle cose introvabile, di vite patetiche e di una natura sublime con animali straordinari e albe magiche.

Un film brutale, forse inadatto al grande pubblico perché, pur visualizzando un’immagine superficiale di un mondo dorato, ne rivela la volgarità e la decadenza che si allargano all’intera società. Ma il suo protagonista, pur riconoscendo che la sua vita è niente, ammirando chi è felice di accontentarsi delle piccole cose, dando ragione a una bambina che gli dice che lui non è nessuno, la mattina continuerà a dormire, ad affrontare la fatica del vivere con leggerezza. Perché, anche se le radici sono importanti, la vita resta nascosta sotto il bla bla bla, il chiacchiericcio ed il rumore, che non sono altro che sprazzi di bellezza dopo i quali esiste solo squallore.

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