Segnali per il futuro

Nov 17th, 2016 | Di cc | Categoria: Politica

di Edoardo Barra                                                                                   

 

 

La galoppata che ci porterà al voto del 4 dicembre per decidere la sorte delle modifiche alla Carta Costituzionale di renziana ispirazione è entrata in dirittura finale. Ormai gli schieramenti che si confrontano, quelli che auspicano il Si e quello che invece sono per il No, hanno espresso tutte le ragioni a conferma della propria scelta. Eppure, gran parte del Paese sta assistendo a questa contesa con una certa perplessità per non dire con una sorta di rassegnazione. Questo è il gran limite di un’operazione che, lungi dall’essere un’innovazione condivisa al massimo tra le forze rappresentative del Paese, si è trasformata in una contrapposizione di principio oltre che di merito.

La responsabilità di questo ricade completamente sul Presidente del Consiglio, quel Matteo Renzi che non ha saputo ricoprire il ruolo di regista di un cambiamento ma ha ristretto il tutto nell’ambito di una prova di forza di se stesso contro gli altri, quelli che non riconoscono la sua come unica, possibile e quasi divina leadership. Un limite troppo evidente per non lasciare traccia sul futuro della Nazione. Infatti qualunque sia il risultato che uscirà fuori dalle urne, il vero sconfitto nei confronti della storia e del Paese sarà proprio l’ex rottamatore che è riuscito a dividere più che riunire, a scontrarsi più che confrontarsi. Le modifiche costituzionali, che avrebbero dovuto essere il frutto di un lavoro comune tra le forze politiche e sociali per poi ricevere il naturale sigillo popolare, sono invece diventate il motivo di uno scontro basato su personalismi e fazioni. Un qualcosa che “sporca” l’essenza della Carta Costituzionale, lasciando un segno di divisione lontano anni luce dall’idea dei padri costituenti. Questo è il pesantissimo fardello che l’improvvisazione politica accompagnata da una gran dose di supponenza lascia alla nazione e al suo futuro. Ci troviamo al cospetto di un Paese spaccato nel quale qualunque fronte vinca si troverà a dover fare i conti con l’altra metà che non condivide. Una situazione paradossale considerato che stiamo parlando del documento che rappresenta la regola del gioco democratico. Certo, non vi saranno, nell’immediatezza, stravolgimenti di particolare portata. La vita della nazione non subirà scosse violente ma di sicuro sarà segnata dalla decisione assunta.

La vittoria del No aprirà una nuova stagione politica nella quale il volere popolare non potrà più essere sottoposto a decisioni imposte dall’alto come quelle a cui ci siamo abituati con diverse guide del Paese non supportate dal voto. Sarà quindi necessario, e di certo auspicabile, ripensare il rinnovamento non solo basandosi sull’età anagrafica e sui bei sorrisi, ma sulle questioni concrete e sulle esigenze di quello che una volta si chiamava popolo. I problemi, quelli veri, peseranno su tutti e tutti - destra, sinistra e M5S - dovranno riorganizzarsi su un terreno più solido, dovendo fare i conti con la realtà delle cose.

Se invece a prevalere sarà il Si, allora si rivelerà nella sua sostanza la carenza di un bilanciamento tra poteri che porrà - di fatto -  nelle mani di pochi le decisioni che contano. Una democrazia pilotata, quella che in una parola unica si definisce oligarchia. Questo scenario, di cui si avvertono i primi cupi segnali nell’atteggiamento di una classe dirigente impegnata soprattutto a giustificare la propria essenza piuttosto che a lavorare per il Paese, rischia di portare l’Italia verso una traballante situazione interna dai risvolti dubbi se non pericolosi. Non dimentichiamo come il terrorismo nostrano, nonostante le sue mille e controverse sfaccettature, fu comunque partorito da un malessere generale germogliato nelle fabbriche e tra la naturale irrequietezza studentesca, e che venne sconfitto solo quando il Paese unito riuscì a trovare nella sua istintiva e comune capacità di sopravvivenza democratica la ragione stessa per reagire.

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