Falcone: venticinque anni dopo…

Mag 23rd, 2017 | Di cc | Categoria: Politica

di Edoardo Barra

 

 

 

Sono passati 25 anni da quel pomeriggio del 23 maggio 1992. Erano le 17.58 quando un’esplosione nei pressi di Capaci, cancellò la vita di Giovanni Falcone, della moglie e dei poliziotti della scorta. Uno di quei momenti in cui il Paese si è scoperto debole, indifeso nelle mani di quelli che lo stesso Falcone definì “menti raffinate e centri di potere occulti”. Molte parole si dissero allora, frasi di dolore, di disperazione, spesso solo di opportunità. Lo Stato apparve incapace di difendere i propri servitori dai nemici e forse da chi, nello Stato stesso, era invischiato in sporchi giochi di convivenze e convenienze.

Il giudice che il mondo guardava con ammirazione era caduto sotto i colpi di una vendetta troppo prevedibile per definirla inaspettata, troppo “esemplare” per non essere compresa da chi doveva comprendere.

Falcone era solo o poco più, eppure aveva avuto l’intelligenza di capire come tutti, comprese le più complesse strutture, hanno punti deboli e lasciano tracce. Ma forse fu proprio quella perspicacia che lo condannò. Il rischio che potesse arrivare dove non si può era troppo grande e per chiudere la questione in maniera definitiva, pochi mesi dopo toccò a Borsellino, suo grande amico, collaboratore, estimatore e successore nella lotta, lasciare la vita in un’esplosione. Certo negli anni ci sono state condanne, pagine scritte e chiacchiere infinite per cercare di spiegare logiche e motivi, eppure qualcosa è rimasto nella penombra e forse vi rimarrà per sempre.

Non riuscire a sollevare il manto di polvere che ricopre le verità intraviste è stata e sempre sarà la più grande sconfitta per uno Stato che si definisce democratico e civile. Ma quante volte in questi anni abbiamo dovuto arrenderci di fronte a quella polvere che brucia gli occhi e l’anima? Quante volte abbiamo dimenticato troppo in fretta e abbassato la testa di fronte a inganni senza spiegazioni?

Falcone non era un supereroe ma un uomo e come tale ha ragionato. Ha cercato di comprendere e ha avuto il coraggio di proseguire. Si è sporcato le mani con il fango che impediva la vista, ha dovuto accettare sconfitte e tradimenti, ma è andato avanti senza cedere alle lusinghe di una tranquillità e di un benessere che, certo, non gli sarebbe mancato.

Ma uomini come Falcone hanno lasciato anche qualcos’altro, qualcosa di scomodo, di fastidioso, persino di ingombrante. Ci hanno detto che è possibile guardare oltre l’imperscrutabile, di non accettare passivamente interessi poco chiari, che anche il potere può aver paura. Falcone aveva un senso del futuro alto, non era legato ad alcun partito ma a un’idea concreta del diritto e del dovere. Ha reso evidenti i limiti di uno Stato malato di connivenze e d’interessi, ma ancora di più ha mostrato la viltà degli uomini che dovrebbero rappresentarlo.

Questa è una lezione politica che venticinque anni dopo ancora nessuno ha fatto propria. Le commemorazioni servono solo a consentire una passarella ai passeggeri delle auto blu di turno, sono i fatti che dimostrano se la lezione è stata appresa. E oggi, in un panorama politico desolante, dove regnano sovrane intelligenze nane, politiche miopi e personaggi privi di spessore, persino cercare il senso dello Stato appare uno sforzo improbo.

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