Fortunata di nome ma non di fatto: Mazzantini e Castellitto raccontano una storia italiana

Giu 9th, 2017 | Di cc | Categoria: Spettacoli e Cultura

La coppia Castellitto-Mazzantini, coppia di cinema e di vita, ritorna al girato in pellicola e lo fa con una storia che strizza l’occhio ai grandi clichè social-cinematografici del cinema italiano.

Fin dalle prime scene tornano in mente, seppur con una storia diversa e raccontata in modo diverso, le precedenti “fatiche” dei due che tendenzialmente amano raccontare tragedie sociali ma soprattutto familiari.

Tutto, dai dialoghi, alla scenografia, alla sceneggiatura dei personaggi, è surreale. La regia sembra una scopiazzatura al ribasso di Ozpetek, come testimonia ad esempio l’improbabilissimo clan delle amiche coatte e sguaiate di Fortunata. I dialoghi poi sono insostenibili, l’alternanza tra questo forzato romanesco di borgata e un italiano lontanissimo dal parlato di tutti i giorni, con frasi tipo “ma non capisci che io ho una deontologia professionale?”, o “ti devi sentire libera, è stato per troppo amore”. La scena in cui poi Accorsi racconta del padre marinaio che lo ha abbandonato dopo essere salito su un cargo e non essere più tornato, ritrovato dopo anni e anni in Costa d’Avorio sulla spiaggia con le scimmie dove si era aperto una bisca, è a dir poco grottesca, sembrava un elogio comico a Manuel Fantoni e invece parlava sul serio.

Nei film di Sergio Castellito e Margaret Mazzantini i nomi sono importanti e nonostante qui Jasmine Trinca abbia un personaggio che visivamente non è lontano da quello di Penelope Cruz in “Non Ti Muovere”, i loro nomi tradiscono una diversità. Italia, era una straniera, Fortunata non è una a cui la vita ha detto bene. Madre sola (e vista la brutale violenza del marito nonchè padre di sua figlia è meglio così), parrucchiera a domicilio, aspira ad aprire un suo salone di bellezza con un amico bipolare tatuatore dotato di madre ex attrice in deriva senile.

Umanità di estrema periferia, popolarissima e sguaiata, violenta ma passionale nell’afosa e appiccicosa estate romana, che vive accanto all’acquedotto e cammina nella notte con carrelli all’indietro come in “Mamma Roma”. Rumorose e piene di problemi Fortunata e sua figlia finiscono da uno psichiatra infantile (Accorsi) che finirà ad analizzare oltre la bambina anche la madre con inevitabile ricaduta sentimentale che finirà di incasinare tutto, trascinando i personaggi verso il gran finalone melodrammatico e a tinte fortissime, tra pistole, pianti e avvocati.

Fortunata vuole avere lo sguardo sui personaggi di Pasolini, unito al senso del melodramma classico e dei suoi adorabili luoghi comuni dei film di Raffaello Matarazzo, in più non teme mai il ridicolo nel proporre una storia e degli svolgimenti oggi molto fuori tempo. La grande poesia negli occhi e nelle bocche di personaggi di borgata, le fughe d’amore idilliache al porto di Genova, i sorrisi lieti ed innamorati che preludono alla tragedia ed un senso di miseria esasperato sono ciò che una volta reggeva i modelli di questo film ma oggi, almeno per come li porta Castellitto, sembrano inaccettabili.

Non è che sia scritto male Fortunata e del resto nemmeno è interpretato male (anzi!), è che sembra non rendersi conto che nel suo osare di fare qualcosa che nessuno oggi fa più, mostra perché non venga fatto. Perché una storia messa in scena con questa voglia di realismo ma così idealizzata in dialoghi, aspirazioni e volontà poetica è impossibile, non regge, non suona autentica, non riesce a dire nulla se non le proprie voglie.

Salvatore Aulicino Mazzei

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