TROVATO IL GENE PER FRONTEGGIARE L’ALZHEIMER

Mar 13th, 2009 | Di cc | Categoria: Salute

Una ricetta per fronteggiare l’Alzheimerarriva da una ricerca guidata dagli scienziati della Fondazione Istituto neurologico Carlo Besta e dell’Istituto farmacologico Mario Negri di Milano, in collaborazione con i colleghi ricercatori dell’università degli Studi meneghina, del Centro Sant’Ambrogio-Fatebenefratelli di Cernusco sul Naviglio e del Nathan Kline Institute di Orangeburg (New York, Usa). La soluzione ad uno dei mali peggiori del nostro tempo potrebbe nascondersi nella sostanza stessa che lo scatena: la beta-proteina, che aggregandosi forma depositi impossibili da smaltire (placche amiloidi), killer dei neuroni. Una sua forma mutata, identificata grazie a uno studio “made in Milano” che si è guadagnato i riflettori di “Science”, può infatti rappresentare uno scudo contro la malattia. Il procedimento si potrebbe trasformare in un farmaco per bloccare sul nascere l’Alzheimer in tutte le sue forme, compresa quella familiare che attacca il cervello anche da giovani. Già a 40 anni o perfino a 30. La possibilità è quella di dare una sterzata positiva al morbo che allo stato attuale prende circa mezzo milione di italiani, 6 milioni di europei e 5 milioni di americani. Cosa preoccupante è che queste cifre tendono a raddoppiare entro il 2050. A causare tale andamento è l’invecchiamento inesorabile della popolazione - Il team milanese ha così scoperto una nuova variante di beta-proteina mutata, che se è presente in doppia copia (codificata da entrambi gli alleli del gene corrispondente, condizione detta in gergo tecnico omozigosi) scatena l’Alzheimer in forma grave, rivelandosi invece protettiva se presente in singola copia (eterozigosi). Un “colpo di intuito”, spiega il direttore del Dipartimento di malattie neurodegenerative del Besta, Fabrizio Tagliavini, che ha spinto gli studiosi ad approfondire lo strano caso di un 36enne colpito da Alzheimer precoce e aggressivo senza avere apparentemente alcuna familiarità per la patologia.Una speranza di cura “basata sull’uso di frammenti proteici contenenti questa mutazione o di composti peptido-mimetici”, puntualizza Mario Salmona, direttore del Dipartimento di biochimica molecolare e farmacologia dell’Istituto Mario Negri. Medicinali efficaci “senza effetti collaterali”, sottolinea Tagliavini. In questo caso, precisa Tagliavini, “la beta-proteina mutata si lega a quella normale e blocca la formazione di amiloide e lo sviluppo della malattia. Un comportamento biologico sorprendente”, che “apre una nuova prospettiva terapeutica” sia per le forme genetiche (3%) che per quelle sporadiche (non familiari, 97%) di Alzheimer. “Galeotte” le indagini su un paziente 36enne e la sua famiglia. “Tutto è partito dal caso di un paziente di 36 anni, con una forma di demenza molto aggressiva pur senza presentare in apparenza alcuna familiarità per la malattia di Alzheimer”, racconta Tagliavini. “Nonostante questo, abbiamo deciso di eseguire delle indagini genetiche - continua - e abbiamo scoperto la nuova mutazione presente in omozigosi”.

 

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                                                            Ebbene, passando in rassegna tutti i componenti della famiglia dell’under 40 malato - sulla quale gli studiosi mantengono il più stretto riserbo per ragioni di privacy - il team milanese ha scoperto “molti membri eterozigoti, eppure perfettamente sani”. Compresa un’anziana signora arrivata alle soglie dei 90 anni «con una memoria di ferro», che per ironia della sorte assisteva un marito malato di Alzheimer. Non solo. “Riproducendo in laboratorio la nuova beta-proteina individuata, abbiamo visto che si trattava di una mutazione molto aggressiva - aggiunge lo scienziato - e allora ci siamo chiesti perchè non si fossero ammalati anche quei parenti del nostro giovane paziente che presentavano la mutazione in eterozigosi”. Infatti, ricorda Tagliavini, “per tutte le mutazioni note prima d’ora bastava che l’alterazione fosse presente su un singolo allele del gene per scatenare l’Alzheimer in forma grave”. Alla luce di questa osservazione, “un caso praticamente unico in letteratura”, Tagliavini e colleghi hanno quindi provato a “mettere insieme in provetta la beta-proteina normale e quella mutata”, notando che “l’interazione blocca la “cascata amiloide” chiave nella malattia”. In altre parole, la beta-proteina mutata impedisce a quella normale di cambiare forma e di aggregarsi formando la placca amiloide.

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