Referendum, un’occasione mancata. Il quinto quesito rivela la vera sconfitta

Giu 11th, 2025 | Di cciotola | Categoria: Politica

Non è bastato evocare i “diritti”. Non è bastata la spinta della CGIL, né il sostegno compatto di ampi settori della sinistra. I referendum che avrebbero dovuto scuotere il Paese si sono rivelati, senza troppi giri di parole, un fallimento. Non solo per il mancato raggiungimento del quorum, ma perché hanno mostrato quanto si possa forzare uno strumento prezioso come il referendum, snaturandolo in una campagna tutta ideologica e poco radicata nella realtà.

La maggioranza degli italiani ha scelto di non votare. Non per disinteresse o ignoranza, ma per una forma di disapprovazione silenziosa e, forse, più eloquente di un voto contrario. I promotori confidavano che la sola evocazione della parola “diritti” potesse attivare una mobilitazione spontanea e diffusa. Hanno invece scoperto che la società non si muove su comandi emotivi, e che la partecipazione va conquistata, non data per scontata.

Piuttosto che prendere atto della distanza tra la proposta referendaria e il sentire comune, si è scelta la via più comoda: quella della narrazione ribaltata. Elly Schlein ha provato a trasformare una sconfitta in un successo, salutando come un risultato positivo la partecipazione di oltre 14 milioni di cittadini e accusando la destra di aver boicottato il voto. Ma la verità è più semplice e anche più dura: l’astensione ha vinto perché in molti non si sono riconosciuti nei quesiti proposti. Non c’è stato bisogno di nessun boicottaggio. È mancato il consenso, non la libertà di scelta.

A dimostrazione della debolezza dell’iniziativa, il dato più significativo emerge proprio dal quesito sulla cittadinanza, quello ritenuto più “universale”. Eppure, anche lì, il risultato ha mostrato tutte le crepe di una coalizione progressista che si illude di parlare a nome di un intero Paese. Il 65% di sì contro il 35% di no non è un trionfo, ma il segno di una spaccatura. In numeri assoluti, circa 9 milioni di voti favorevoli, ben lontani dal consenso ottenuto dal centrodestra nel 2022. Una distanza che pesa.

Anche perché su questo tema il Movimento 5 Stelle aveva lasciato libertà di voto. Il fatto che una parte consistente del suo elettorato abbia votato no dimostra quanto sia fragile e divisa l’area progressista su questioni fondamentali. Se non c’è accordo nemmeno su un principio cardine come la cittadinanza, figuriamoci su dossier ben più complessi come la politica estera, dove le divergenze tra PD e M5S sono profonde e spesso inconciliabili.

A rendere il quadro ancora più chiaro è arrivata la presa di posizione di Carlo Calenda: “Il campo largo è finito”. Una frase che fotografa con lucidità ciò che molti ormai pensano da tempo. L’unità del centrosinistra non è solo lontana: è probabilmente irraggiungibile. Almeno finché sarà costruita su equilibri instabili, su visioni incompatibili e su alleanze fondate più sulla necessità aritmetica che sulla condivisione politica.

Il referendum avrebbe potuto essere un’occasione per lanciare un messaggio forte e coeso. Si è trasformato invece in un esercizio autoreferenziale, che ha mostrato tutte le fragilità di un progetto politico ancora in cerca di sé stesso. E alla fine, il Paese ha risposto con il silenzio. Che, in certi casi, pesa più di qualunque voto.

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